L’utilizzo della chimica nel vino: quanta ne viene usata e perché se ne sta parlando così tanto? A sollevare il dibattito – e le conseguenti polemiche e indignazione da parte dei produttori – è stata la trasmissione di Rai 3 Report che, in due puntate, ha affrontato il tema degli interventi enologici del vino, dividendo il comparto tra una sorta di buoni (piccoli vignaioli che fanno il vino naturale), e cattivi (le grandi aziende che ricorrono alla chimica).
Ma è vero che le imprese industriali standardizzano il prodotto mentre i piccoli produttori lo esaltano? Che dire dei lieviti cosiddetti selezionati usati nella fermentazione finiti anche loro nel mirino del programma? Facciamo chiarezza.
Il polverone di Report
Il vino è un prodotto che ha idealmente due genitori: da un lato la vigna che regala l’uva, mentre dall’altro c’è l’uomo che coltiva la vite e che poi segue tutto il percorso di vinificazione.
In Italia è il fiore all’occhiello del comparto produttivo agricolo e il nostro non è solo tra i Paesi al mondo dove si beve più vino: oltre i 200 milioni di ettolitri all’anno, ma è anche il primo produttore in termini di quantità e il secondo dopo la Francia in termini di valore.
Contiamo oltre 540 varietà e si distingue nel panorama internazionale proprio per la ricchezza più unica che rara di tipologie di uva.
L’export vale 7,5 miliardi e tutto l’indotto muove un giro d’affari che arriva a toccare i 30 miliardi, 530mila aziende e circa 870mila addetti. Numeri e qualità che fanno del settore motivo di orgoglio per il made in Italy.
Ci sono state nel passato (e anche oggi) delle controversie e frodi perpetrate da chi non rispetta le regole: c’è chi utilizza sostanze non consentite per aggiustare un’uva scadente, chi mescola grappoli uve provenienti da zone diverse e le etichetta sotto denominazioni che non corrispondono al contenuto.
Pratiche come queste non sono permesse dalla legge, ma per fortuna sono sempre più rare: questo perché i controlli degli enti preposti sono stringenti e perché la qualità media si è alzata notevolmente, parallelamente alla consapevolezza dei produttori di rispettare la terra e i consumatori.
Numeri del vino rilevanti e qualità della produzione, uniti alla passione di chi opera nel comparto e nella promozione all’estero, fanno sì che nel momento in cui si va a sminuire in qualche modo il valore del lavoro che c’è dietro, il settore reagisca con indignazione.
A sollevare un polverone e scuotere gli animi nelle ultime settimane ci ha pensato proprio Report: le due puntate dedicate al vino hanno scatenato diverse polemiche.
I servizi giornalistici di Report hanno evidenziato un quadro problematico: da un lato hanno portato alla luce casi di frode legali all’origine del vino e di sofisticazioni del prodotto, dall’altro hanno descritto il settore puntando su una netta polarizzazione tra il mondo della produzione industriale e quello dei piccoli agricoltori.
È stato posto in particolare l’accento sull’utilizzo dei cosiddetti lieviti selezionati nella fase della fermentazione, sottolineando come questi ultimi sarebbero imputati di standardizzare il prodotto, creando dei vini omologati e molto simili tra loro.
Nel processo di creazione del vino i lieviti sono i protagonisti della fermentazione e sono responsabili della buona riuscita della vinificazione, poiché servono a trasformare gli zuccheri del mosto in etanolo e anidride carbonica, determinando la concentrazione alcolica del prodotto.
Possono essere indigeni (presenti nell’uva stessa) o selezionati, cioè isolati in laboratorio e applicati dall’esterno.
Nel mirino di Report sono finiti quelli selezionati che, insieme all’uso di tecnologie messe a disposizione dalla chimica alimentare, secondo le testimonianze raccolte dai giornalisti del programma sarebbero responsabili di una sorta di standardizzazione del prodotto, penalizzando la specificità di profumi e gusti propri di un determinato terroir.
Nel corso dell’ultima puntata di Report sono stati anche sollevati due casi – uno in Valpolicella e l’altro in Oltrepò Pavese risalente, in base a quanto emerso, al 2015 – di sofisticazione di vini e frodi sull’origine e nel processo produttivo, messi in evidenza da ex dipendenti delle rispettive imprese. Accuse che sono state respinte dalle due grandi aziende in questione, interpellate dai giornalisti del programma.
Inoltre nel servizio è stato sottolineato come, secondo una ricerca, dal 2016 al 2022 l’uso di pesticidi nelle vigne italiane sia cresciuto in maniera significativa, pur senza violare le soglie previste dalla legge.
I lieviti selezionati standardizzano il vino?
Quindi è vero che i lieviti selezionati standardizzano il vino? Inoltre, contrapporre le imprese industriali ai piccoli produttori è davvero la chiave giusta per fotografare il comparto?
A rispondere, nella stessa trasmissione, è Riccardo Cotarella, numero uno degli enologi italiani, 60 vendemmie sulle spalle, oltre cento aziende seguite in giro per il mondo.
Il presidente di Assoenologi chiarisce che i lieviti selezionati servono a tirare fuori profumi e caratteristiche già insite nell’uva non ad aggiungere aromi e che si tratta di pratiche enologiche diffuse e regolari, di cui non c’è nulla da scandalizzarsi.
Sul tema interviene anche Lamberto Frescobaldi, presidente dell’Unione italiana vini che riuscire 800 aziende che rappresentano l’85% dell’export del vino italiano: “Cotarella l’ha detto in modo chiaro: ci sono lieviti indigeni e selezionati, e a volte le due tipologie non sono poi così diverse. Il bello del mondo del vino è questo: non c’è nessuna preclusione, ci sono tante sfumature. Pensiamo, ad esempio, all’interesse emerso negli anni scorsi intorno al mondo degli orange wine, alcuni super buoni, altri più difficili da comprendere. C’è chi dice che i vini siano omologati, ma la verità è che è esattamente l’opposto. I vini hanno tante sfaccettature, ci sono persone che li amano più semplici e asciutti, altri che invece preferiscono etichette più complesse. Lo scopo è esaltare il proprio vigneto. Ancorché ci sia una tendenza a fare vini “corretti” e a prezzi più concorrenziali, su tutti gli altri ci sono il desiderio e la necessità di avere propria identità, altrimenti è molto difficile andare sul mercato. Come si fa a vendere se tutti i vini sono uguali e semplici? Ognuno di noi cerca di valorizzare il territorio, altrimenti saremmo sciocchi o pazzi a spendere tanti soldi: l’omologazione non ci riguarda“.
“Questo non vuol dire – precisa Frescobaldi – che i produttori siano tutti buoni e bravi. Esistono i controlli e gli enti preposti ne fanno, eccome. C’è sempre qualcuno che supera i limiti e va oltre, ma non si può per questo accanirsi sul comparto. Da parte di noi produttori c’è l’amaro in bocca su questo tipo di messaggio e parlo a nome del settore”.
Insomma, c’è rammarico nel mondo del vino per una narrazione televisiva che non restituisce tutta la verità e la passione di centinaia di migliaia di lavoratori del settore.
“Credo che sia stata sprecata un’occasione per mettere dei punti fermi e fare chiarezza su dati di fatto che riguardano il vino – afferma il Master of Wine Gabriele Gorelli – nella prima e nella seconda puntata di Report sono venute fuori diverse imprecisioni. È improprio utilizzare parole chiave come “artificiali” riferito ai lieviti o parlare di multinazionali con tono negativo: questo è un messaggio che i profani della materia possono percepire come se fosse una questione puramente di pancia. Un messaggio dannoso: peraltro, oggi i prodotti enologici biotech, mi riferisco ai lieviti ma anche a collaggi, finiture e così via, stanno vivendo una crisi non indifferente: c’è molta meno richiesta a causa della contrazione dei mercati, della riduzione dei raccolti e della compressione dei margini. Ciò fa sì che si comprino molti meno prodotti: oggi siamo in una situazione diversa da quella di qualche anno fa. Dal servizio tv viene poi fuori un quadro particolarmente polarizzante fra il mondo del vini industriali e quello dei piccoli agricoltori, con la parola “imbottigliatore” usata con una connotazione fortemente negativa quando invece si sta parlando di persone che valorizzano il prodotto-uva: in Francia si chiamano negociant e hanno fatto la storia del vino francese come è successo in molti casi anche in Italia”.