Simili nella pronuncia e nella scrittura, ricavati dall’uva, entrambi prodotti eccellenti. Ma guai a confondere il vino cotto e il vincotto. Per l’area di produzione, l’utilizzo in cucina e la procedura di lavorazione, sono entrambi differenti e dotati di una propria identità, riconosciuti nell’elenco dei prodotti agroalimentari tradizionali italiani istituito dal ministero delle Politiche agricole, alimentari e forestali.
Come il nome, anche le loro storie sono similari. Entrambi hanno origine ai tempi degli antichi romani. Per il vincotto, oggi tipico prodotto di Basilicata e Puglia, si utilizzava un mosto cotto di uva, in due versioni (Sapa e Defrutto) per la concentrazione ottenuta. Il risultato ottenuto era un condimento per i piatti, usato per arricchire le carni e nelle torte come edulcorante, o mischiato al miele. Diluito con l’acqua, il mosto diventava una bibita dolce energetica. Apicio (II secolo d.C.) faceva largo uso del “defrutum” nella sua cucina. Si usava persino per fare granite utilizzando neve compressa in età grecoromana e medievale.
Del vino cotto si hanno testimonianze romane analoghe, ma con una differenza abissale: è un alcolico e si beve. Il mosto si faceva bollire prima della fermentazione, per poi venire consumato anche come bevanda, oltre che per condire le pietanze o correggere i vini. L’alcolico attualmente prodotto in Abruzzo e nelle Marche viene descritto anche da Plinio il Vecchio, nel I secolo d.C., nella “Naturalis historia” e da Lucio Giunio Moderato Columella nel Libro X del “De re rustica”. Lo menziona anche il bottigliere del papa Paolo III nel 1534, Sante Lancerio, Andrea Bacci nel suo “De naturali vinorum historia” nel 1595 e lo storico Gabriele Rosa nel II libro della “Storia di Ascoli Piceno” nel 1870. Infine, nel 2002 è stato ufficialmente riconosciuto un preciso modo di preparare il vino cotto.
Il vino cotto, dunque, è anche una bevanda. Si prepara utilizzando l’uva di dei vitigni abruzzesi e marchigiani. Colta l’uva e pigiata, il mosto ottenuto si mette in un caldaro (grossa pentola di rame) a fuoco diretto, mettendo una verga di ferro nudo per impedire al rame di passare in soluzione. La verga la si tiene finché l’evaporazione non produce la riduzione del contenuto fra un terzo e un mezzo di quello iniziale. Nelle Marche c’è chi per aromatizzare aggiunge in questa fase una mela cotogna per ogni quintale di mosto.
Appena raffreddato, il mosto viene rimboccato in caratelli (vasi simili alle botti) di rovere per la fermentazione. Terminata questa fase si trasferisce il liquido in un contenitore in cui è presente il vino cotto degli anni precedenti. Per evitare ossidazioni è importante un lungo e lento invecchiamento, perciò è necessario calcolare il giusto dosaggio tra il “fresco” e il datato ed effettuare una spillatura attenta. Basta un solo piccolo errore per perdere il profumo fruttato caratteristico della bevanda una volta pronta, di colore rubino e una gradazione generica intorno al 14 per cento.
Il vincotto ha una lavorazione totalmente diversa del “false friend” marchigiano. Si parte con un mosto fresco di uva cotto e viene prodotto utilizzando diverse varietà bianche e rosse coltivate in Puglia. Senza lunghe lavorazioni, il vincotto si ottiene con la lenta riduzione di quel mosto fino a raggiungere la consistenza di uno sciroppo, dal gusto rotondo e dolce. Un ingrediente perfetto per la preparazione di dolci e bibite, ricco di polifenoli antiossidanti.
A seconda della zona geografica ci sono diverse varianti per ottenere il liquido di condimento. In Salento si produce infatti una versione ricavata dalla lenta cottura del mosto d’uva al vino: ridotti insieme, raggiungono anche in questo caso la consistenza di uno sciroppo totalmente analcolico. I salentini lo chiamano “Cuettu”, cioè “cotto”.
Per il suo forte sapore, dolce e fruttato, il vino cotto può essere considerato al pari di un amaro che chiude un pranzo o una cena. Può essere anche servito in piccoli bicchieri insieme a qualsiasi tipo di dessert. Il vincotto, invece, è utilizzato nella preparazione di alcuni piatti tipici della Basilicata come la “lagana chiapputa” (pasta a base di frutta secca” o il “pan minisc” (dessert con farina, zucchero e spezie). In Puglia si usa per le “pittule” (taralli neri), i “mustazzoli” e le “carteddate” (rose fatte con un particolare impasto lavorato con olio e lievito, poi fritto e ricoperto con il condimento).
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