Il mondo del vino ha una storia millenaria e monolitica. Fa pensare che tutte le rivoluzioni, i cambiamenti che sono avvenuti nel mondo enologico, siano avvenute in tempi biblici, ma non è sempre così.
Ecco ad esempio la storia della degustazione di Parigi del 1976, all’interno dell’Intercontinental Hotel in cui undici persone avevano il compito di assaggiare venti vini, californiani e francesi, giudicarli e tornare a casa.
Questa degustazione è stata organizzata da Steven Spurrier, un britannico all’epoca enotecario a Parigi e proprietario dell’Academie du Vin, dove insegnava cose vinose, e la sua collega Patricia Gastaud-Gallagher, americana del Delaware.
La loro idea fu quella di proporre in assaggio solo vini californiani, sfruttando la ricorrenza del bicentenario della dichiarazione d’indipendenza degli Stati Uniti d’America.
Una volta in Francia, Spurrier chiese e ottenne l’adesione di nove delle più competenti personalità dell’enologia francese:
• Pierre Brejoux, ispettore generale dell’Institute National de l’Origine et de la Qualité
• Claude Dubois-Millot, del ristorante Gault-Millau
• Michel Dovaz, dell’Institut du Vin
• Odette Kahn, editrice de La Revue du vin de France
• Raymond Oliver, chef e proprietario del ristorante Le Grand Véfour
• Pierre Tari, proprietario dello Chateau Giscours
• Christian Vanneque, sommelier del ristorante La Tour D’Argent
• Aubert de Villaine, proprietario del Domaine de la Romanée-Conti
• Jean-Claude Vrinat, proprietario del ristorante Taillevent
Ma ciò che rese leggendaria questa degustazione furono le quattro decisioni prese da Spurrier:
La zampetta del diavolo, quella che trasformò una degustazione in una leggenda, si intravede in quattro precise decisioni di Spurrier. All’assaggio di sei bianchi a base Chardonnay e di sei rossi a base Cabernet Sauvignon americani, egli aggiunse in contrapposizione quattro bianchi di Borgogna e quattro rossi di Bordeaux, tutti Grand Cru o Premier Cru, tutti di uvaggio analogo, tutti annoverati tra i migliori vini al mondo.
La degustazione sarebbe stata alla cieca, e i vini vennero travasati in bottiglie neutre per non creare condizionamenti anche con il solo colore del vetro.
I giudici avrebbero assegnato un punteggio da 1 a 20 per ogni vino che, sommati, avrebbero generato due classifiche, una per i bianchi e una per i rossi. Infine, la quarta scelta di Spurrier fu invitare la stampa.
Quindi da una semplice degustazione conoscitiva si era passati a una degustazione comparativa, con tanto di punteggi e classifica. E ogni classifica decreta un vincitore.
Inoltre tutti i giornalisti invitati declinarono l’invito, sancendo una copertura mediatica nulla. Partecipò solamente lo statunitense George Taber del Time.
Taber riprese minuziosamente ogni sorta di commento da parte degli assaggiatori, con commenti del tipo: “Questo è sicuramente californiano: non ha naso” oppure “Oh, siamo tornati in Francia”, segnandosi anche il numero del vino destinatario del commento. (Il primo commento venne riservato a un Batard Montrachet Grand Cru 1973, Borgogna, mentre il secondo fu dedicato a uno Chardonnay californiano del 1972 ndr).
Finiscono i dieci assaggi dei bianchi e, prima di partire con i rossi, Spurrier decide di annunciare la classifica della prima batteria di vini con i relativi punteggi.
Con 132 punti il primo classificato risulta essere lo Chardonnay 1973 di Chateau Montelena, Napa Valley, California (USA). Sì, un vino bianco californiano aveva appena messo in fila tre Premier Cru e un Grand Cru borgognoni, a insindacabile giudizio di esperti palati francesi.
Con gli assaggi dei rossi i giudici si dimostrano nettamente più severi. Se sospettano di avere un californiano nel calice ci vanno giù pesanti: Odette Kahn assegnò a tre vini un 5 e addirittura due 2, praticamente li giudicò vini difettati oltre il limite della potabilità (Odette Kahn chiese poi a fine degustazione che non venissero contati i suoi punteggi; con molto garbo non venne accontentata ndr).
Alla stesura della classifica dei rossi si aggiudica il primo posto il Stag’s Leap Wine Cellars Cabernet Sauvignon 1973, Napa Valley, California (USA).
Il Cabernet americano vinse con un margine ridotto su tre icone come Château Mouton-Rotschild, Château Montrose e Château Haut-Brion. L’elite del vino mondiale era ai piedi di un illustre sconosciuto.
Alla fine della degustazione Taber telefona ai vignaioli vincitori, i quali rimangono senza parole, e la seconda fu di insistere con il Time per la pubblicazione dell’articolo: quattro paragrafi che cambieranno la storia del vino e forniranno la prova che i vini francesi sono sia avvicinabili che battibili.
Aubert de Villaine disse a Spurrier il giorno stesso che quello che era successo era “un calcio nelle palle alla Francia”, sicuramente molto drastico ma non del tutto corretto.
La degustazione di Parigi, oltre a porre sulla mappa del vino il resto del mondo, fece compiere un esercizio di autocritica ai francesi.
Tanto che Steven Spurrier, che sarebbe poi diventato uno stimatissimo wine consultant e uno dei nomi della rivista Decanter, venne addirittura premiato dai francesi nel 1988 come Personalité de l’Année (Oenology) per i servigi resi al vino francese.
I nove giudici, salvo i prevedibili spernacchiamenti patiti nell’immediato, non subirono spiacevoli conseguenze professionali. I loro nomi resteranno per sempre legati alla rivoluzione che avvenne in un solo pomeriggio, quando dei vini vennero giudicati solo per le qualità espresse nel calice, al di là della provenienza geografica.
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