É capitato a tutti noi di vedere dei film ambientati nell’antica Roma e abbiamo ben presente le coppe dorate di vino che, dai nobili ai plebei, venivano consumate durante i banchetti, o nelle locande cosiddette thermopolium. E in che quantità…
Per i Romani, il vino non aveva l’implicazione che aveva per i Greci, in cui la bevanda serviva a raggiungere una sorta di ebrezza che avvicinava alla divinità. Per i latini era una bevanda godibile insieme con carni e altre vivande, oppure era occasione di brindisi in onore di amici, donne, personalità importanti, defunti, o divinità.
Il vino, quindi, è una bevanda molto antica. Basti pensare che moltissimi dei vini che conosciamo noi oggi, derivano proprio dall’epoca romana. Eppure, la loro consumazione di vino era diversa dalla nostra e, probabilmente, noi contemporanei non ne gradiremmo una coppa. Spesso, infatti, il vino era allungato con acqua di mare, aromatizzato con spezie, o mescolato a salsa di pesce.
Da dove arriva la viticoltura?
Molto probabilmente i romani avevano appreso le tecniche di produzione della vite dagli Etruschi, dai Greci o dai Fenici. All’epoca degli Etruschi, infatti, la penisola si chiamava “Enotria“: produttrice di vino. Ciò che sappiamo per certo è che la viticoltura è una pratica mediterranea, e la vite è, con tutta probabilità, specie autoctona della nostra penisola, e non importata da altri popoli.
I Romani hanno, quindi, fatto loro questa tecnica di produzione del vino, e sono giunti a produrne varie tipologie. La differenza rispetto ai giorni nostri sta nel fatto che nelle cantine il vino doveva essere trattato, perché era difficile riuscire a mantenere la qualità del prodotto senza che questo si deteriorasse, e al fine di conservarlo al meglio.
Così, la vinificazione avveniva nella terracotta, ma venivano poi aggiunte delle resine e delle spezie per rendere contenitori e tappi impermeabili, le quali alteravano il sapore del vino rendendolo forte e deciso.
Come avveniva la produzione?
Molti autori latini, tra cui Plinio il Vecchio, Catone, Varrone e Columella nel De re rustica, descrivono la coltivazione e la produzione del vino, e grazie ad essi è stato addirittura possibile ricostruire alcuni utensili di lavoro.
L’uva apina veniva raccolta dopo un breve appassimento sulla pianta, perché secondo i Romani questo aumentava la qualità dei vini (gli acini d’uva immaturi producevano invece il vino destinato agli schiavi). Se ne ricavava un vino molto pastoso, nettarino e dal grado alcolico elevato. Per questo veniva diluito con acqua o mescolato al garum (la salsa di pesce).
Il mosto fermentava poi nei dolia, contenitori di circa 2 metri che venivano poi interrati. Dal momento che non era possibile controllare la fermentazione, i vini ottenevano tra loro differenze anche molto consistenti nella gradazione alcolica, per supplire alle quali i romani aggiungevano del miele o degli aromi, o mescolavano tra loro i vini.
Al vino finito si aggiungevano, per dare maggior sapore, estratti di erbe, legni odorosi, mirra, profumi ed essenze vegetali. I vini pregiati venivano poi conservati in anfore che contenevano fino a 330 litri. Sulle anfore destinate al trasporto, sigillate con tappi di sughero, vi era un’etichetta che portava il luogo di provenienza del vino, il nome del produttore e quello del Console in carica.
Esistevano, inoltre, delle figure che fungevano da sommelier, gli haustores, che classificavano i vini in base alle loro qualità e al loro utilizzo.