Se nella GDO americana le vendite di vino italiano restano in terreno negativo, c’è un fenomeno da tenere sott’occhio: tra i vini fermi 4 bottiglie tricolore su 10 sono low alcol.
Ma la cosa più interessante è che si tratta di prodotti che fanno capo a un unico marchio: Stella Rosa della Riboli Family con sede in California, passato – secondo Impact Databank – da un milione di casse nel 2015 a oltre 7,2 milioni nel 2021. Ma cosa li ha fatti crescere così tanto?
Su un totale di 906 milioni di euro relativo agli acquisti di table wines italiani (vini fermi e frizzanti, esclusi spumanti), il brand americano somma vendite per 341 milioni di euro, con un’incidenza sul venduto della tipologia al 38% sia a valore sia a volume.
Prezzo medio 13,40 euro contro 13,88 euro dei vini tradizionali. Si tratta per lo più di prodotti semidolci e frizzanti provenienti dal Piemonte che in Italia non potrebbero neanche definirsi vini, vista la bassa gradazione alcolica.
A molti sembrano non piacere e per alcuni, a partire dal Ministero dell’Agricoltura Francesco Lollobrigida, non andrebbero neppure chiamati vini.
Eppure a quanto sembra i vini low alcol o dealcolati sono un piccolo pezzo del presente del mercato delle bevande e sono destinati a crescere.
Attualmente sembra che qualche etichetta a firma italiana stia nascendo, ma c’è ancora un gap enorme per i produttori italiani, ovvero il fatto che sebbene l’Unione Europea abbia da tempo una sua normativa di riferimento in materiale, l’Italia sembra non averla ancora recepita.
Ad oggi, secondo il regolamento Ue 2021/2117, ha autorizzato e normato la produzione e commercializzazione di vino parzialmente dealcolato nell’Unione Europea.
Distinguendo, intanto, tra dealcolizzazione totale, che riguarda i prodotti per i quali il titolo alcolometrico effettivo del prodotto non è superiore allo 0,5% e la dealcolizzazione parziale, se il titolo alcolometrico effettivo del prodotto è superiore allo 0,5% e inferiore al titolo effettivo minimo della categoria che precede la dealcolizzazione.
Con la peculiarità che, per i vini Dop e Igp, è autorizzata solo la dealcolizzazione parziale. Che, oggi, può avvenire con tre metodi: la parziale evaporazione sottovuoto (che, da un lato, produce il vino dealcolato, e, dall’altro, acqua di vegetazione ricca di alcol, dal 30% al 40% ed oltre); con le membrane (che, oltre al vino, danno origine ad un’acqua di rete con concentrazione alcolica quasi nulla, tra 0,3 e 0,5 gradi alcolici); per distillazione.
Ma un punto fermo – e per molti non ancora raggiunto – è che i processi di dealcolazione quali che siano non devono dare luogo a difetti organolettici nel prodotto.
Se, ovviamente, la dicitura dealcolizzato o parzialmente dealcolizzato devono essere ben distinguibili in etichetta, sono tante le questioni ancora aperte a livello di normativa dell’Unione Europea.
Attualmente, ad esempio, sebbene il vino dealcolato faccia parte della grande famiglia dei prodotti vitivinicoli, non è possibile produrlo con certificazione biologica, ma non è detto che questo non sia destinato a cambiare.
Ancora, non è sostanzialmente possibile fare blend tra un prodotto dealcolato ed uno non dealcolato, né può essere utilizzato l’arricchimento di un vino dealcolato tramite l’aggiunta di zucchero nel mosto.
“E così, nonostante un lavoro importante che ci ha consentito di mantenere l’ambito dei cosiddetti vini dealcolati nell’Ocm Vino, i produttori italiani non possono giocare ad armi pari con gli altri. Perchè le cantine del Belpaese che vogliono investire in questa nicchia di mercato, che può non piacere agli amanti del vino, ma che esiste, sono costrette ad andare ad acquistare o a farsi produrre il vino low alcol all’estero, con il valore aggiunto che, dunque, in parte, viene disperso”, ha sottolineato il segretario di Unione Italia Vini (Uiv) Paolo Castelletti a Wine News, ed è proprio Uiv, con la regia di Elisabetta Romeo, che ha fatto il punto della situazione nei giorni scorsi, nel Sana, mandando anche in scena una degustazione dei prodotti low e no alcol di brand italiani di primo piano come Zonin1821, Hofstatter e Schenk.
Se questo, come detto, è il quadro europeo, in Italia – spiega la presentazione di Unione Italiana Vini: “Alcuni punto del Testo Unico non consentono alle imprese vitivinicole italiane di iniziarne la produzione negli stabilimenti vitivinicoli. È vietata – per esempio – la detenzione di alcune sostanze negli stabilimenti enologici che, nel caso specifico dei vini dealcolati, andrebbe regolamentata. Dovrebbe anche essere permessa la detenzione momentanea dell’alcol prodotto dal processo di dealcolizzazione prima che questo venga denaturato e quella dell’acqua ottenuta nel corso dello stesso processo”.
Su questi e altri temi il Ministero dell’Agricoltura ha recentemente inviato uno schema di decreto relativo ai vini dealcolati e parzialmente dealcolati elaborato a seguito di un confronto con l’agenzia delle dogane e con l’Icqrf (Ispettorato per il Controllo della Qualità e Repressione Frodi).
Tra i punti più delicati, segnalati da Unione Italiana Vini (Uiv) lo schema di decreto prevede che “l’acqua endogena ottenuta dai processi di dealcolizzazione effettuati tramite distillazione o evaporazione parziale può essere recuperata a condizione che il riutilizzo avvenga all’interno del processo di dealcolizzazione, operando in modo continuo e automatico in un circuito chiuso”.
Prevede inoltre che “il processo di dealcolizzazione può avvenire esclusivamente presso stabilimenti dotati di licenza di deposito fiscale per la produzione di alcol”; che “fino alla realizzazione di una specifica funzionalità telematica le singole lavorazioni devono essere preventivamente comunicate entro il quinto giorno antecedente alla loro effettuazione mediante Pec agli uffici territoriali dell’Icqrf e dell’Agenzia delle Dogane e dei Monopoli secondo competenza”.
Guardando a una normativa che il settore del vino italiano spera arrivi quanto prima, il tema dei vini dealcolati è particolarmente sensibile, in uno scenario di mercato e di costumi sociali che sta cambiando in ogni angolo del mondo e che va verso un sempre minor consumo di alcol, al netto di politiche più o meno restrittive, o di campagne di comunicazione più o meno aggressiva in materia.
D’altronde, ricorda la presentazione di Elisabetta Romeo: “Nei paesi che tradizionalmente sono stati i maggiori consumatori, il consumo annuo pro-capite tende a diminuire. Nel 2022, secondo Wine Intelligence, un terzo dei consumatori vuole diminuire il consumo di alcol negli Stati Uniti; il 36% in Giappone, il 56% in Australia e il 58% in Svizzera. Secondo le elaborazioni dell’Osservatorio del Vino di Unione Italiana Vini (Uiv), su dati della World Bank, il consumo di alcol pro-capite ha subito un decremento medio annuo del 3,2% in Italia, del 1,8% nel Regno Unito, del 1,4% in Francia e Paesi Bassi e del 1% in Germania. Inoltre, nel mondo, il 50% della popolazione non consuma bevande alcoliche per motivi religiosi o perché non le considera nel proprio regime alimentare. Questa percentuale è emblematica del potenziale del mercato del vino senza alcol”.
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