Negli ultimi anni, la ricerca sulla viticoltura ha compiuto notevoli progressi, grazie all’integrazione di tecniche genetiche avanzate e a un approccio scientifico più organico. L’obiettivo principale di queste innovazioni è affrontare le sfide legate alla scarsità d’acqua e alla resistenza delle piante a malattie, senza compromettere la qualità delle uve e del vino. Una delle scoperte più significative in questo campo è rappresentata dai portainnesti M, sviluppati da un team di ricerca dell’Università di Milano, guidato dai professori Attilio Scienza e Lucio Brancadoro, in collaborazione con Winegraft, un consorzio di importanti aziende vitivinicole italiane.
I portainnesti M non solo fungono da barriera contro la fillossera e la siccità, ma si rivelano anche strumenti cruciali per migliorare la qualità delle uve. Questa nuova prospettiva contrasta con la visione tradizionale, che considerava i portainnesti principalmente come soluzioni a problemi fitosanitari. Dopo oltre venti anni di esperimenti e microvinificazioni in dieci diverse aree viticole italiane, il team di ricerca ha dimostrato che i portainnesti M possono:
Marcello Lunelli, presidente di Winegraft, ha definito questa scoperta come “rivoluzionaria”, sottolineando che i portainnesti devono essere visti come strumenti biologici per ottenere una qualità superiore delle uve e, di conseguenza, del vino. Secondo Attilio Scienza, la ricerca ha confermato che, come in altri settori agricoli, anche nella viticoltura i portainnesti possono essere utilizzati per migliorare la qualità della produzione.
Lucio Brancadoro ha evidenziato che l’ampia mole di dati raccolti consente di comprendere meglio come la scelta del portainnesto influisca sulle performance produttive e qualitative della vite. Le sperimentazioni hanno mostrato l’adattabilità dei portainnesti M in diverse condizioni ambientali, dimostrando come possano fungere da driver per risultati qualitativi superiori, specialmente in un contesto di cambiamento climatico. Infatti, i portainnesti M hanno mostrato una risposta più efficiente agli stress abiotici, favorendo un decorso maturativo delle uve più favorevole e, di conseguenza, vini di qualità superiore.
Analizzando i dati delle sperimentazioni, si è osservato che varietà come il Cabernet Sauvignon innestato sugli M ha mostrato performance produttive superiori, con una buona vigoria e livelli di zuccheri più alti rispetto alla media. Un simile trend è stato riscontrato anche nello Chardonnay, dove le uve hanno presentato un’acidità titolabile più elevata, fondamentale per la produzione di spumanti di alta qualità. Le analisi sensoriali hanno confermato che i vini prodotti da Chardonnay innestato con gli M presentano un profilo aromatico complesso, con intensi sentori di frutta tropicale, una maggiore acidità e una struttura più robusta.
Inoltre, i portainnesti M influenzano anche l’accumulo di polifenoli durante la maturazione delle uve, un aspetto cruciale per la qualità dei vini rossi. Nei campi sperimentali, combinando diversi vitigni rossi come Nero d’Avola, Cabernet Sauvignon e Sangiovese, si è registrato un aumento significativo dei polifenoli totali, contribuendo a una migliore persistenza del colore e della struttura del vino.
Questa nuova visione della viticoltura, imposta dai risultati dell’Università di Milano, invita a riconsiderare l’approccio tradizionale nella scelta dei portainnesti. È evidente che la scelta deve tenere conto non solo delle caratteristiche varietali e ambientali, ma anche degli obiettivi enologici specifici che si intendono perseguire. La ricerca continua a dimostrare che i portainnesti M rappresentano una delle chiavi per affrontare le sfide future della viticoltura, con l’ambizioso obiettivo di produrre vini di qualità sempre più elevata, in un contesto globale in continua evoluzione.
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