Dalle uve più note a quelle più sconosciute, tutte portano nei nomi il luogo di origine, una funzione o una caratteristica che le legano ai territori. Esiste proprio una disciplina che studia, identifica e classifica le varietà dei vitigni: si chiama ampelografia. Farlo per l’Italia è quasi impossibile: risalire a come un’uva si è trapiantata qui, e distinguere quindi tra autoctoni e alloctoni, non è fattibile per via di secoli di storia, popolazioni e incroci che si sono fatti. Esistono però dei vitigni con nomi strani di cui è possibile sapere il significato.
Si parte con il Dolcetto, diffuso principalmente in Piemonte e in parte della Liguria. Si tratta di un’uva da cui si ricava un vino rosso secco: il nome deriva forse dalla sua poca acidità e dal fatto di essere più approcciabile rispetto ad altri vitigni piemontesi. Secondo un’altra ipotesi, deriverebbe da “dosset”, che in francese significa “collina”. Altro vitigno dal nome strano è quello che proviene dalle langhe piemontesi: l’uva bianca Nas-Cëtta o Anas-Cëtta. Provenienza e nome rimangono un mistero: si pensa a un passato persiano con il vino “sciaros”, da Scia, cioè il vino del re, per poi vederla rispuntare nelle cronache dell’Alto Medioevo. Altri documenti, infine, ricordano il trasporto della “sciaretta”, vino commerciato nell’alta Langa.
Restando in Piemonte, zona Canavese, si narra la leggenda dell’Erbaluce: un’ipotesi vede il vitigno già noto dall’antica Roma come Alba Lux, un’altra lo lega invece al territorio prealpino dove cresce e secondo i miti popolato da ninfe. Il Sole si innamorò di una di loro, Alba, e per poterla incontrare diede vita a un’eclissi in cui nacque Albaluce. Dalle sue lacrime nascerebbero i frutti dell’uva. Ancora in Piemonte c’è la Freisa, uva rossa di cui si parla già nel XVI secolo con etimologia francese “fraise”, cioè fragola.
Il vitigno bombino bianco “Pagadebit” è delle Marche e deve il suo nome alla sua resistenza alle avversità climatiche, qualità che in passato permetteva ai coltivatori di garantire ogni anno la produzione di vino e, appunto, “pagare i debiti” dell’anno precedente. In Toscana esiste invece il Mammolo, dal caratteristico aroma di violetta: è da qui che deriva il nome. Infine troviamo il Bellone autoctono del Lazio: uva bianca già nota ai tempi di Plinio, ha buffi sinonimi come Uva Pane, Pacioccone o Arciprete perché ha degli acini grandi e di bell’aspetto.
In Sicilia esiste il Grillo, che ha circa 150 anni e nasce da un incrocio tra Catarratto e Zibibbo. Incerta l’origine del nome: pare che i grilli fossero i noccioli della melagrana che sono scarsi di numero, cosa che accade anche per i semi di quest’uva. Nel casertano, in Campania, c’è invece l’Asprinio: il nome deriva dall’acidità dell’uva, appunto aspra.
Si passa poi in Puglia col Cacc’è Mitte, un’uva Doc di Lucera della zona sud del Gargano. Il significato del suo nome riguarda i luoghi di vinificazione delle antiche masserie del Sud, che venivano dati in affitto a più produttori di uva: bisognava velocizzare le procedure per lasciare spazio a più affittuari in un giorno, quindi il termine indica qualcosa fatto velocemente. In Salento, infine, esiste il Susumaniello: vitigno da bacca rossa, la pianta si carica così tanto di grappoli da essere associata al “somarello”, animale da fatica nelle campagne di una volta.
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