Etichette del vino, la collezione del prof. Cesare Baroni Urbani
Lemisure standard di un’etichetta da vino moderna sono di 15×10 cm, quanto basta per contenere le informazioni basilari sul contenuto della bottiglia e molto altro.
Alla fine molti vignaioli sulle etichette si dilettano nel raccontarsi sulle etichette e perché una persona non dovrebbe collezionarle e tenerle con cura? Dopo aver imparato come togliere con cura un’etichetta dal corpo della bottiglia, scopriamo insieme chi le colleziona e soprattutto i loro volumi e il loro valore.
La collezione di etichette del vino del Fondo Cesare e Maria Baroni Urbani
Ecco dunque che iniziamo con il Fondo Cesare e Maria Baroni Urbani che, a distanza di quasi trent’anni dall’inizio dell’impresa, costituisce una delle più ampie collezioni di etichette da vino d’uva al mondo con i suoi 285mila pezzi singoli e autentici, che datano dalla fine del Settecento ai giorni nostri e sono provenienti da 105 Paesi.
Ma facciamo un passo indietro: il prof. Cesare Baroni Urbani è un entomologo di fama internazionale, già docente presso l’Università di Basilea, ora in pensione risiede nelle Marche.
Ha trascorso la vita a studiare insetti in giro per il mondo, in particolare le formiche e la loro struttura sociale rigida e organizzata, militaresca. Questa deve aver costituito una fonte di ispirazione non secondaria per affrontare questo particolare hobby, che è il collezionismo, con tanta meticolosità.
Con tanta cura e pazienza il professore, con l’aiuto della moglie Maria De Andrade, ha assemblato una collezione di etichette da vino di clamorosa varietà e completezza.
Molti pezzi sono stati ottenuti direttamente dai produttori, la maggior parte dei quali gli ha inviato le etichette più recenti, mentre alcune prestigiose cantine si sono rifiutate categoricamente, costringendo Baroni ad acquistarne le bottiglie, per poi spogliarle del loro abito.
Una volta ottenuta la bottiglia però non è sempre facile: l’etichetta, unica garanzia del suo contenuto, soprattutto per quanto riguarda i vini pregiati e costosi è protetta da potenti colle per impedirne la rimozione.
Inoltre la collezione, in passato, è stata implementata anche recuperando svariati esemplari tra i fondi di vecchie tipografie, tramite scambi con altri collezionisti o con acquisizioni alle aste.
Nell’ottobre 2012 la collezione viene donata al Comune di Barolo (CN) ed entra a far parte del patrimonio del WiMu – Wine Museum Castello di Barolo, che da quasi dieci anni continua ad accrescerla e a valorizzarla, consentendone la fruizione da parte del pubblico.
I segreti dentro le etichette da vino
Le etichette presentano un importante valore documentario, poiché offrono informazioni di grande interesse storico o geografico su molti vini di cui, a volte, non restano più tracce.
Raccontano molto sui caratteri del luogo, del tempo e del contesto culturale in cui sono state realizzate: le dimensioni, la carta di cui sono composte, il tipo di stampa, gli elementi decorativi e gli stili che ne definiscono l’estetica riflettonole condizioni economiche, tecnologiche, sociali del mondo in cui il vino è stato prodotto.
Ad esempio, nella collezione di Baroni Urbani, la guerra fa capolino più volte come sulle etichette di Champagne recanti le sovrastampe delle acquisizioni effettuate dalla Wehrmacht o dagli Alleati, oppure sulle etichette inglesi che inneggiano alla vittoria nelle Falklands.
In alcuni casi non solo non esiste più il vino, ma nemmeno lo Stato, come nel caso delle etichette del KwaNdebele testimoniano il breve periodo della sua semi-indipendenza dal Sud Africa.
Gli esemplari provenienti dall’Iran sono tutti, per forza di cose, ante 1979, non essendo più possibile produrre vino nella patria dello Shiraz, dall’anno della rivoluzione islamica.
Anche l’unica etichetta siriana della collezione assume oggi un significato simbolico particolare, vista la situazione odierna del martoriato paese, mentre la dicitura Gerusalemme – Palestinapuò essere letta come auspicio per una serena convivenza tra i rispettivi popoli.
Ci sono poi esempi di viticoltura remota o estrema, come la capillare diffusione del vino in Africa tra Kenya, Tanzania, Burkina Faso e Madagascar, in Asia centrale e orientale tra Turkmenistan, Tagikistan, Birmania e Malesia, nel Pacifico come in Nuova Caledonia e Tahiti.
E, se qualcuno se lo fosse mai chiesto, esiste anche il vino norvegese, con la sua emblematica etichetta ispirata all’Urlo di Munch.
Le etichette primordiali nelle anfore del Faraone
Facciamo ora un po’ di storia: la più antica forma di etichetta, ovvero di informazioni relative al vino, risale agli antichi Egizi: nella tomba di Tutankhamon, Howard Carter rinvenne 36 anfore da vino e su 33 di queste è indicato il nome del capo cantiniere, due recano la dicitura vino molto buono, mentre alcune portano il sigillo delle tenute del faraone.
I dati impressi nell’argilla di altre anfore riguardano invece l’anno di produzione del vino contenuto, il vigneto di provenienza, il nome del proprietario e del capo cantiniere.
Per quanto riguarda i greci, veri iniziatori della civiltà della vite e del vino, ci hanno lasciato preziose testimonianze sulle anfore dei vini di Chios: una sfinge e un grappolo d’uva sono il primo contrassegno giunto fino a noi.
Mentre per i romani, loro introducono novità di rilievo: sulle anfore di epoca repubblicana, l’annata è sostituita dal nome del console in carica in quel determinato periodo, ma soprattutto compare il nome del vino che contengono, quasi sempre associato al territorio di provenienza (un antenato della DOC).
Nel Medioevo il vino è servito travasato in caraffe di terracotta o ceramica ed è del tutto anonimo per l’avventore e la bottiglia in vetro soffiato – fragile e costosa – diventa uno status symbol nel Cinquecento dell’età moderna, ma la maggior parte di esse è ancora in peltro, ceramica vetrificata o anche legno.
L’invenzione della bottiglia di vetro come la conosciamo oggi si deve all’inglese sir. Kenelm Digby che, nella prima metà del Seicento, sfrutta al massimo le nuove possibilità offerte dai forni a carbone per dare vita a contenitori dalla forma a bolla e dal collo allungato, finalmente stabili e di colore verde o bruno.
Nel Settecentola bottiglia si snellisce e il tappo in sughero diventa la norma e, intorno al 1730, compaiono i bottle tickets, ovvero placche in metallo o pergamena recanti il nome del vino, la data di imbottigliamento e la provenienza. Dunque per la prima volta l’informazione sul vino approda in tavola.
Ma quando arriva l’etichetta su carta? Sono i produttori di Champagne nell’Ottocento i primi a sentire l’esigenza di produrre un’etichetta semplice ed economica, seguiti dai produttori di Porto.
D’ora in avanti le singole aziende realizzeranno specifiche etichette da applicare sulle bottiglie e così nasce la personalizzazione dell’informazione enologica.
Il metodo tipografico è quello della litografia, inventata alla fine del Settecento e in principio si utilizzavano modelli ingentiliti da decori generici con un pre-stampato “18_ _” da completare a mano con il nome del produttore.
La stampa policroma e, dal 1837, la cromolitografia assecondano la crescente creatività delle aziende e in Italia i primi modelli sono molto semplici, con fregi lineari e piccole dimensioni, adatte a bottiglie non prive di regolarità.
Nel corso del secolo, le cose cambiano. Ad esempio in Bordeaux e nella Borgogna, si affermano i motivi dorati e il medagliere, per segnalare le onorificenze e i premi ricevuti in occasione di concorsi ed esposizioni internazionali.
E se esiste un cliente di prestigio, di solito un sovrano, non si esita a indicarlo a chiare lettere: l’abuso, e in certi casi l’uso scorretto, di tali segnalazioni porteranno al loro successivo divieto.
Ma ormai la fantasia ha preso il sopravvento, e l’etichetta diventa a tutti gli effetti la seconda pelle del vino, su cui esprimere idee, punti di vista e non solo.
Giulia De Sanctis
Laureata in Comunicazione e Valorizzazione del Patrimonio Artistico Contemporaneo, collaboro attivamente con riviste e testate web del settore culturale, enogastronomico, tempo libero e attualità.