In Italia, il fenomeno delle dark kitchen è in crescita, ma solleva interrogativi sia tra i professionisti del settore che tra i consumatori
Il fenomeno delle dark kitchen rappresenta una trasformazione significativa nel settore della ristorazione, spinta dalla crescente domanda di servizi di consegna a domicilio. Se da un lato offre opportunità per ridurre i costi e aumentare la flessibilità operativa, dall’altro solleva questioni cruciali riguardo alla trasparenza, alla qualità e alla sicurezza alimentare. È fondamentale che le autorità e gli operatori del settore collaborino per stabilire normative chiare e garantire che l’evoluzione del mercato avvenga nel rispetto dei diritti dei consumatori e dei lavoratori.
Nella puntata di ieri sera, 18 febbraio 2025, del programma televisivo “Striscia la Notizia”, l’inviato Max Laudadio ha presentato un’inchiesta sul fenomeno delle “dark kitchen”, note anche come “cucine fantasma”. Queste strutture sono dedicate esclusivamente alla preparazione di cibo per il servizio di consegna a domicilio, senza un’area dedicata alla ristorazione tradizionale.
L’inchiesta ha messo in luce alcune criticità legate a questo modello emergente nel settore della ristorazione. Durante il servizio, Laudadio è riuscito a documentare le condizioni operative all’interno di una dark kitchen situata in un capannone industriale a Milano. Le immagini hanno rivelato spazi estremamente ridotti in cui gli operatori lavorano per preparare ordini destinati esclusivamente al delivery. In collaborazione con un rider, sono state mostrate ulteriori immagini di un’altra cucina fantasma, caratterizzata dalla presenza di circa venti tablet, ciascuno associato a un diverso ristorante virtuale.
Questo solleva interrogativi sulla trasparenza e sulla qualità del cibo consegnato ai consumatori, che spesso ignorano l’origine effettiva dei piatti ordinati. Un esperto intervistato ha sottolineato la gravità della contaminazione crociata da allergeni, evidenziando che in Italia si registrano annualmente circa quaranta decessi per shock anafilattico.
Il concetto di dark kitchen ha iniziato a prendere piede nei mercati anglosassoni e asiatici, parallelamente all’ascesa delle piattaforme di food delivery come Uber Eats, Glovo e Deliveroo. Queste cucine sono strutture commerciali ottimizzate esclusivamente per la preparazione di cibo destinato alla consegna a domicilio, senza un servizio di ristorazione in loco. Secondo uno studio di Statista, si prevede che il mercato globale delle dark kitchen raggiungerà un valore di oltre 120 miliardi di dollari entro il 2030, con una crescita annuale superiore al 10%.
Le dark kitchen offrono diversi vantaggi agli imprenditori del settore alimentare. Innanzitutto, consentono di ridurre significativamente i costi operativi, eliminando la necessità di spazi per la clientela e di personale di sala. Inoltre, permettono una maggiore flessibilità nel modificare i menu e nell’adattarsi rapidamente alle tendenze del mercato, grazie all’assenza di un’identità fisica legata a un particolare brand. Questo modello consente anche di gestire più “ristoranti virtuali” da un’unica cucina, aumentando la varietà dell’offerta senza incrementare i costi infrastrutturali.
Tuttavia, emergono anche diverse criticità. La mancanza di trasparenza sull’origine del cibo può generare sfiducia nei consumatori, soprattutto riguardo alla qualità e alla sicurezza alimentare. Le condizioni di lavoro all’interno di queste cucine possono essere problematiche, con spazi limitati e ritmi intensi che potrebbero compromettere sia il benessere dei lavoratori che gli standard igienici. Inoltre, la gestione simultanea di più brand in un unico spazio aumenta il rischio di contaminazione crociata, un aspetto particolarmente preoccupante per chi soffre di allergie alimentari.
In Italia, il fenomeno delle dark kitchen è in crescita, ma solleva interrogativi sia tra i professionisti del settore che tra i consumatori. La Federazione Italiana Pubblici Esercizi (FIPE) ha espresso preoccupazione riguardo alla regolamentazione di queste strutture, sottolineando la necessità di garantire la tracciabilità dei prodotti e la trasparenza nei confronti dei clienti. Aldo Mario Cursano, vicepresidente vicario nazionale di FIPE, ha dichiarato: “Il fenomeno è in crescita, e va bene, ma sembra improbabile che vada a intaccare il modello italiano di ristorazione. Il food delivery risponde a una domanda specifica, che esige comodità e velocità; la qualità di ciò che si mangia viene dopo“.
Alcuni ristoratori italiani hanno adottato il modello delle dark kitchen per ampliare la propria offerta senza sostenere i costi associati a un locale fisico. Tuttavia, altri preferiscono mantenere un controllo diretto sulla qualità, evitando di esternalizzare la preparazione dei piatti. Ad esempio, Samuele Serra, fondatore del “Milano Restaurant Group”, ha dichiarato: “Anche noi facciamo ricorso al delivery, ma la nostra impostazione è piuttosto chiara: solo alcuni piatti possono essere preparati e consegnati in tempistiche veloci e programmate. Con la pizza, l’hamburger ed anche il sushi il meccanismo funziona bene. Molto meno bene con la cucina più complicata, la pasta, i pesci e le carni che richiedono particolari accortezze, e che magari rientrano nella grande tradizione italiana: la standardizzazione fa perdere qualcosa a cui il gruppo MRG non vuole rinunciare”.
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